A Posadas, alla scoperta della città invisibile
Esperienza della baraccopoli di San Jorge agli occhi di un giovane urbanista italiano,
di Maurizio Pioletti, architetto ricercatore nell’ambito dello sviluppo urbano sostenibile presso l’Università Cà Foscari di Venezia e socio fondatore della onlus Architetti Senza Frontiere Veneto, dopo tre mesi a Posadas prestando supporto a progetti di sviluppo locale
Lungo le coste del Rio Paranà, dove l’Argentina, terra di gauchos e praterie, guarda con proverbiale diffidenza la sponda paraguayana, terra per eccellenza di miti e tradizioni Guaranì, sorgono spontanee città di baracche e uomini, in cerca, ancor prima che di futuro possibile, di un presente tangibile. Molti di questi uomini provengono da un altrove, spesso abbastanza vicino, a volte un po’ più lontano, mossi dalla ricerca di un benessere vitale che pare essere ritrovato con più forza nella comunità locale, che nello stato mercato nazionale e continentale.
Così, ai margini delle riconosciute città di certe parti del mondo, gruppi di uomini si stringono in una struttura sociale inconsapevole da cui nasce quella città -oggi nota come “informale”- per costituire il proprio posto nel mondo e legittimare il proprio ruolo nello stato.
Tuttavia, lo Stato pare non interrogarsi sempre in modo sistematico e profondo sulle ragioni del vivere di tutti i suoi abitanti, e mette in campo politiche che, anche quando sono volte agli abitanti della baraccopoli, spesso non ne interpretano l’essenza dei bisogni.
In questo scenario di uomini ai margini, baracche cresciute come alberi, grandi paesaggi e governi lontani, si ambienta la mia esperienza di urbanista, volontario per un breve periodo, presso Jardin de los Niños nella baraccopoli di San Jorge a Posadas.
Quando si esce dal centro di Posadas per la prima volta, magari con un autobus, tante sono le buche per le strade, che più che su un mezzo pubblico dei tempi moderni, sembra di viaggiare su una diligenza del Far West. In effetti, tanta è la polvere rossa di ferro che si alza nelle strade trafficate, quanto il fango in cui la stessa polvere si trasforma, quando piove a dirotto.
Arrivati alla fermata della ruta 12 in uscita da Posadas, prima dell’arroyo Zaiman, si scende e ci si incammina per una strada laterale che, se non fosse per qualche baracca in prima linea e per cumuli di rifiuti ai bordi, sembrerebbe condurre fuori dal costruito. Invece, poche centinaia di metri oltre, ci si trova tutto ad un tratto dentro il villaggio, noto a tutti come San Jorge.
Edifici in muratura, tra cui quelli dell’associazione e le prime case solide costruite nel tempo accolgono il visitatore, ignaro dell’estensione dell’area, non tracciata come insediamento nelle mappe quasi fosse un luogo non abitato, ed ignaro della molteplicità delle iniziative abitative messe in atto dagli uomini che in quest’area hanno deciso di fermare il loro migrare.
Strade asfaltate, strade di pietra e strade di fango e polvere si intersecano e formano cuadras che ospitano numerosi lotti dove case, rigorosamente composte solo dal piano terra perché nessuno vuole che altri gli camminino sopra la testa -a parte debite eccezioni di tradizione nord europea-, si aprono sulla strada attraverso piccoli scoperti e bassi muri di cinta. Salta subito agli occhi la permeabilità di queste viviendas -abitazioni ndr- rispetto la strada, come se il privato fosse protetto dal collettivo solo attraverso un muro, in cui la porta, se non c’è particolare ragione di fare altrimenti, può restare aperta. Così il forestiero incede scrutando ai lati di larghe strade il microcosmo di famiglie numerose che condividono spazi angusti e che dilatano il loro permanere negli scoperti.
Collettivi, non pubblici. Non pubblici in quanto, spesso, solo in parte legittimati ed, infatti, solo a volte tracciati nella mappa, come se le mappe dei governi locali fossero deputate a restituire solo le città di chi quel governo lo ha determinato, considerando di secondo ordine le città di chi, il governo, non ha neanche gli strumenti culturali per sceglierlo.
In questo contesto denso di criticità dovute alla precarietà degli insediamenti, alla scarsa partecipazione politica degli abitanti, al basso livello di istruzione, si presentano ulteriori minacce per gli uomini, sempre riconducibili alla matrice della povertà, che non risaltano subito agli occhi dell’osservatore, ma che si scoprono poi determinare la maggioranza delle dinamiche su cui proprio l’osservatore che arriva da lontano -come ho imparato a fianco di Jardin- dovrebbe eventualmente lavorare per partecipare ad un processo di miglioramento condiviso delle condizioni di vita.
Tali dinamiche sono normalmente riconducibili alla matrice dei rapporti di forza. Nelle case si consumano violenze domestiche, per le strade buie aggressioni sessuali e bullismo, tra vicini si instaurano tanto rapporti di reciproco aiuto, quanto dure competizioni, tra gruppi e bande per le strade si accendono grandi e piccoli conflitti urbani, quasi come se la precarietà delle condizioni igienico sanitarie e la fame, ma ancor più l’impossibilità di intravedere per sé percorsi di realizzazione dei propri desideri e delle proprie ambizioni, impoverisse l’animo degli uomini. Uomini che, in quanto uomini, vorrebbero magari potersi trovare nelle condizioni, invece, di valorizzare i propri talenti e combattere per i propri sogni e per la realizzazione delle proprie ambizioni.
Allora perché città invisibili, le baraccopoli? Invisibili al visitatore, che non cerca di entrarci e che si accontenta dei racconti altrui. Invisibili agli occhi di entra, ma che non ha il coraggio di guardare oltre il muro. Invisibili ai governanti che di solito non ci entrano e che, se le considerano, le trattano come una vergogna da cancellare o un bacino di voti dove attuare facili clientelismi, o ancor peggio un bacino di voti dove, con politiche assistenzialiste, dar da mangiare -comunque male- senza creare le condizioni per cui chi oggi ha fame, domani sia in grado di sostenersi con le proprie capacità. Invisibili agli occhi dello stato che stenta a mapparle, forse nell’attesa di raderle al suolo. Invisibili, tuttavia, non agli occhi dei numerosi cooperanti e volontari di organizzazioni come Jardin de los Niños, che, nella prospettiva di uno sviluppo globale più equo e sostenibile, hanno un vero grande merito. La capacità di porsi come mediatori tra le genti della comunità locale, con cui instaurano un profondo rapporto di reciproca conoscenza, e le strutture amministrative e politiche di governo del territorio dello Stato.
Se nei primi anni, in assenza di Stato, Jardin si è sporcata le mani a costruire le prime case nel fango con la gente, oggi Jardin, ancora, nel quartiere a fianco alla gente, ne coinvolge i più volonterosi perché questi, magari già leaders locali d’opinione, siano aiutati a trovare posto al tavolo delle istituzioni ai vari livelli, per negoziare gli interventi del loro stesso Stato, finalizzati al loro sviluppo ed al benessere dei loro figli.
Maurizio Pioletti